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Curraggia, 26 anni fa
Pubblicato da Sebastiano Posadinu in Cronaca • 28/07/2009 19.18.50
28lug 2009
L’incendio di Curraggia, 26 anni fa.


da unblogindue

E’la fine di luglio del 1983. Un incendio arde da giorni nelle campagne della Gallura.
Le campane delle chiese di Tempio, Aggius, Bortigiadas, Luogosanto suonano all’impazzata per diffondere un appello: servono volontari per aiutare ad arginare le fiamme.
Per giorni gli uomini della zona, ma anche i forestieri, si avvicendano sul fronte del fuoco. La notte tornano negli alloggi ricoperti di fuligine ma dalle docce non scende nemmeno una goccia d’acqua.
L’acqua è finita: non ce n’è per spegnere le fiamme, non ce n’è per sopravvivere.
E’ il 28 luglio. Dopo giorni di lotta senza tregua le campane continuano a suonare. C’è bisogno di mani forti e di braccia che provino a fermare la devastazione.
Le fiamme che sono partite dal mare si sono fatte strada lungo i boschi e sono alle porte di Tempio. Stanno per aggredire la collina di Curraggia, ricoperta dalla vegetazione.
La radio locale chiama tutti ad aiutare e gli abitanti delle zone colpite si riuniscono in gruppi per dare una mano, anche in bermuda e ciabatte, ma con un pò d’acqua da bere e qualche panino da offrire ai vigili del fuoco e agli uomini della forestale che non si fermano da giorni.
Ai più volenterosi i Forestali forniscono tute e guanti e li mandano sui lati del fronte del fuoco, per attaccarlo dai fianchi.
Le fiamme salgono ma niente fa presupporre quello che sta per accadere.
L’ordine è uno solo: “Non bisogna lasciar saltare il fuoco, non bisogna lasciargli attraversare la strada”.
Al di là della strada che si snoda all’inizio dell’abitato di Tempio, infatti, ci sono i castagni e la pineta.
Il fuoco aumenta, divora l’ossigeno e succede il peggio: le lingue infuocate, che sembrano uscire da un gigantesco lanciafiamme, scavalcano la strada.
Un gruppo di volontari si trova in trappola: le fiamme li circondano su tre lati. Nell’unico lato libero c’è una piazzola che, però, si apre su una scarpata ripida. Non si può andare da nessuna parte. Non c’è via di fuga.
Dieci, forse quindici uomini si buttano a terra e cercano di proteggersi in qualunque modo: chi mette la faccia a terra, dentro la sabbia, chi si protegge il volto con le mani.
Pochi secondi, forse qualche minuto. Lunghi una vita intera.
Urla si alzano da quella maledetta piazzola, invocazioni di aiuto, grida di disperazione.
Alle fiamme e alle urla si unisce un fumo denso e tossico: una discarica abusiva viene divorata dal fuoco e appesta con il suo fumo nocivo l’aria già infernale.
Ad un certo punto il vento gira e apre un varco fra le fiamme: pochi secondi per attraversarlo, nel fumo che si taglia a fette. Fra i sopravvissuti, uno ha la maglietta in fiamme e un compagno gliela spegne addosso.
Un uomo ha con se una borraccia: non beve l’acqua ma se la butta sulla testa. Appena il tempo di sentire un minimo di refrigerio, e sviene. Quando si riprende chiede acqua senza sosta. Viene caricato su una macchina e, mentre è in braccio a diversi uomini che lo soccorrono, vede venir via dalle sue braccia lembi di pelle intera.
I carabinieri, che hanno istituito un posto di blocco, hanno l’ordine di non far passare nessuno. Il conducente dell’auto con il ferito a bordo perde la calma, apostrofa in malo modo gli agenti e finalmente riesce a dirigersi verso l’ospedale, mentre l’uomo sviene e rinviene in continuazione.
Dopo le prime cure, con tre flebo attaccate, viene trasferito a Sassari, insieme ad altri 3 superstiti dell’incendio. Il mattino dopo i 4 vengono messi su un piccolo aereo e trasferiti d’urgenza al Centro Traumatologico Ortopedico di Torino.
Uno dei feriti muore durante il volo. A terra la conta delle vittime prosegue e non si fermerà per giorni.
All’arrivo a Torino il responso dei medici è tragico: gli uomini quasi sicuramente non avrebbero passato la mezzanotte.
La notte fortunatamente passa e iniziano le terapie: decorticazione ogni giorno, cioè l’eliminazione delle croste e della pelle morta da tutto il corpo, con il bisturi. Ogni santo giorno l’operazione si ripete.
Sui letti non ci sono lenzuola ma fogli di nylon, per impedire alla pelle di attaccarsi alla stoffa, ma ogni movimento riapre le ferite.
Altri sopravvissuti vengono ricoverati al CTO di Torino e il personale viene precettato: per un mese e più le stesse persone, con un’abnegazione da medaglia, si prendono cura dei feriti.
Durante le notti, dolorosissime, gli incubi si impadroniscono del sonno dei superstiti: fiamme che bruciavano le loro case, lingue di fuoco che avvolgevano i loro cari.
L’incendio non aveva bruciato solo la loro terra e la loro pelle, aveva violentato la loro anima.
Due mesi di ricovero in camera sterile, due trapianti di pelle, altri lunghissimi mesi di ricovero in reparto.
Dopo tantissimo tempo, finalmente, i feriti rientrano a Tempio.
Centinaia di persone li attendono sotto casa, ma loro, il giorno stesso del ritorno in città, chiedono una sola cosa: andare a Curraggia.
Vogliono andare a vedere quello che è stato il loro calvario, che ancora li perseguita nei sogni e che li rende incubi.
Un amico li accompagna.
In mezzo alla devastazione, ai mozziconi neri che rendono lunare la collina dove prima si stendevano castagneti rigogliosi, piangono i loro 9 amici che lì, in quelle fiamme, hanno perso la vita.
Tonino Manconi, segretario della Comunità Montana; Silvestro Manconi e il suo parente Mario Ghisu, impegnati nella decortica del sughero a Tempio; il Maresciallo Salvatore Pala e Diego Falchi, del corpo della Forestale, che hanno lottato senza posa per tre giorni e tre notti contro le fiamme; Nino Visicale e Tonuccio Fara; Gigi Maisto, che è spirato alcuni giorni dopo e Claudio Migali, che è deceduto sul volo per Torino.
Oggi è il 28 luglio 2009: sono passati 26 lunghissimi anni dall’incendio di Curraggia.
Oggi, a Tempio, si celebra la giornata di lutto per i 9 Martiri di Curraggia, a quali nel 2007 il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha conferito la Medaglia d’oro al Valore Civile.
In questi 26 anni ancora non si è capito chi sia stato a scatenare quell’inferno di fuoco. L’origine è indubbiamente dolosa, molto probabilmente dovuta ad una vendetta nei confronti del proprietario di una pineta di Viddalba, paese vicino, che alimentava una cartiera.
Molte ipotesi sono circolate, ma dopo 5 anni il fatto è caduto in prescrizione. Molto rammarico e dispiacere da parte delle autorità, ma nient’altro.
Uno dei superstiti, Giuseppe Sotgiu, ha chiuso una sua intervista con questa frase:
"Auguriamoci che questa data venga ricordata per quello che è successo a Curraggia, con la speranza che, davvero, non abbia a succedere più".
Purtroppo è successo di nuovo, e succede ogni anno. Ogni estate qualche essere miserabile, spinto dal calcolo personale, dalla vigliaccheria e dalla follia, innesca un incendio e porta su questa terra già maltrattata nuova morte e nuova distruzione.
Quando è avvenuta la disgrazia di Curraggia avevo appena 3 mesi di vita. Ho 26 anni ora, tanti quanti ne sono passati dall’incendio, e in questi anni mi è capitato centinaia di volte di percorrere quella strada, di vedere quella collina, e sempre ho sentito l’emozione di chi mi raccontava cosa successe in quel 28 luglio. Tantissime volte ho rivisto la collina annerita dalle fiamme, meno voraci di quelle dell’83, ma non meno devastanti. Non hanno lasciato morti sul terreno, ma hanno distrutto case, aziende, sugherete. E hanno squassato la vita di centinaia di persone.
Non voglio spingermi ad augurare le peggiori cose ai piromani. Voglio solo sperare con tutto il cuore e, forse, con tutta la mia ingenuità, che qualcuno prima o poi riesca a scovarli e a fargli pagare fino alla fine la pena che meritano. Fino all’ultimo giorno.


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