Gemellae N. 42

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Le voci di dentro

di Alessandro Scano

"Che importa se nessun raggio di sole, se nessun lembo di cielo penetra mai nelle prigioni costruite dagli uomini per gli uomini?"

Anonimo, Regina Coeli, 9 agosto 1972

Siamo in due, e trasciniamo a fatica i pochi passi che mancano al cancello, grigio come il cielo autunnale che irride la nostra lenta camminata. Un secondino intirizzito fa cenno di entrare; la chiusura a tripla mandata gela il sangue e accelera la tentazione di scappare: di colpo ci sentiamo inadatti al ruolo di missionari, portatori sani di buoni sentimenti in libera uscita. Il neon acceca e tardiamo a capire che stiamo calpestando pavimenti lustri di varechina in un parlatorio nudo e sterminato dove "le voci di dentro" annegano nelle radiocronache delle partite. Luca (lo chiamerò così) ascolta indifferente mentre ci squadra con disprezzo. Gli occhiali a specchio, irrinunciabile chador da duro, li porta anche oggi, come quel sabato in cui uccise chi aveva osato rubargli la moto. Un lungo ed ostinato inseguimento che al processo ha invalidato le labili attenuanti in sua difesa. Non fiata, e il viso butterato dalla "neve" può far solo intuire una storia come tante, una storia sbagliata: ventott'anni a giugno, di cui due là dentro.
Lui è uno dei 60.000 detenuti italiani o, se preferite, dei 1754 sardi che, insieme ai poliziotti penitenziari, affollano le nostre prigioni. Non serve scivolare nel pietismo, ma credo vada almeno ricordato che chi invecchia al fresco spesso ha lasciato, senza alcun rimpianto, famiglie lacerate e scuole interrotte, più di rado veri affetti e un lavoro sicuro. Siano tossici o alcolisti, indigeni o immigrati clandestini, in prigione si azzerano le difese immunitarie, aumentano l'ansia, le depressioni, i tumori. Allora, pur di trascorrere un po' di tempo all'aperto sono disposti a tutto; ingoiano le posate della cena o imboccano una nera scorciatoia: la fanno finita. Capita quindi che un politico mosso a compassione scoperchi la pentola bollente e invochi inascoltato un'amnistia; per Sofri, Tortora o Carlotto si butta un po' di inchiostro nei giornali, per gli altri senza nome, volto e voce non ne vale la pena. Eppure tutti abitano celle umide e malsane, giocano a rimpiattino con i ratti e aspettano, in un'altalena di speranza e delusione, permessi premio o un week-end a casa. A dirla proprio tutta non è nemmeno il caso di fare una netta distinzione tra detenuti e chi li tiene d'occhio, accomunati dalla stessa sorte; reclusi nel girone dei dannati, popolano quei "cimiteri dei vivi" dove - è almeno il caso di accennarlo - perdono oltre alla libertà ed ai diritti civili, la dignità, l'identità, la cognizione del tempo. In quel deserto degli affetti, dov'è impensabile vivere l'amore, aumentano aggressività e devianze sessuali in chi, defraudato dei propri impulsi, mal si adatta a una forzata castità.
È certo che a parlare di carcere (un'orrenda realtà conosciuta quasi sempre per sentito dire) si rischia di infliggere al povero lettore una cotognata di luoghi comuni e di passare per un corrivo parolaio, un visionario che si ostina a difendere una causa persa in partenza, giacché pochi pensano davvero che chi ha sbagliato riuscirà a cambiare. Nel nostro inconscio persiste l'idea che al detenuto vada incollato un marchio indelebile d'infamia e, del resto, non perdiamo l'occasione per ribadire che certi mostri sono comunque irrecuperabili. Né serve ogni tanto ricordare una vecchia massima, purtroppo valida ancora: "Se tu accetti la prigione, devi accettare anche quelli che ne escono". Parole che la notizia dell'ennesimo crimine rende addirittura provocatorie; quando montano l'ira e lo sdegno s'invoca infatti la pena capitale o almeno un adeguato surrogato, l'ergastolo e…senza sconti. Misura ritenuta troppo blanda per i rei di torture e sevizie o per chi sopprime un innocente (e qui mi limito a parlare di delitti le cui prove fornite dall'accusa coincidono con le ammissioni del collegio di difesa). È dunque ora lecito chiederci se accettiamo l'idea che debba essere offerta una possibilità di riscatto a chiunque: dico a tutti, nessuno escluso. Inclusi i più biechi assassini, inclusi mostri impermeabili ai più elementari sentimenti, inclusi, per fare un esempio scabroso, i massacratori del Circeo balzati nuovamente ai disonori della cronaca, inclusi rei confessi di parricidi e infanticidi, incluso il killer o il mandante del più spietato delitto di mafia. Ovvero tutte le belve passate, presenti e… future, quelle - per intenderci - di cui ci disferemo volentieri gettando in mare le chiavi della cella. E, beninteso, l'applicazione letterale dell'ergastolo non significa altro che zittire per sempre chi si è macchiato dei crimini suddetti. Vuol dire che i detenuti e le loro famiglie (di cui si ignorano o sottovalutano sofferenza, vergogna ed emarginazione) accettino la condanna senza neppure la fievole speranza di un futuro diverso. Vuol dire pure privare di senso il lavoro di quei rari donchisciotte (operatori sociali, psicologi e psichiatri) che operano con instancabile impegno, sebbene siano circondati dal sospetto della pubblica opinione, perennemente scettica sia sui metodi seguiti che sui modesti risultati raggiunti. Vuol dire infine togliere ogni residuo credito a chi è sorretto dall'utopico proposito di evitare che simili belve incarogniscano ancor più.
Una chimera dunque? Un'utopia? Sicuramente. Ma siamo davvero certi che sia utile e giusto eliminare ogni utopia dal nostro immaginario? Il carcere impone oggi di ripensare e - mi auguro - superare convinzioni dure a morire.
 Associazione Culturale Gemellae

gemellae@tiscali.it